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Il nuovo terzo mondo. Interventi sul degrado della cultura.

Intervento di Alberto Marradi comparso nell'aprile 2011 sul forum del vecchio sito dell'Associazione Paideia - Alta formazione nelle scienza umane, oggi non più accessibile.

Quando abbiamo fondato Paideia pensavamo che la nostra denuncia del degrado nell’istruzione e nel clima culturale in generale avrebbe trovato un qualche ascolto. Complici anche le sfortunate vicende che hanno accompagnato il nostro tentativo di convegno siciliano, non è andata così. Vedremo se il cambiamento di strategia che proponevo nell’ultima circolare (cercare sinergie con i pochi che mostrano di avere davvero a cuore il problema piuttosto che cercare di fare da soli) ci permetterà di ottenere risultati migliori.

Ma non è di questo che intendo parlare ora. Vorrei proporre alcune ipotesi sul perché la quasi totalità degli attori pubblici italiani — e la totalità di quelli che gestiscono un minimo di potere, incluso il quarto potere — non solo non fanno nulla per combattere il degrado, ma non collocano il problema neppure all’ultimo posto di una qualsiasi lista di priorità.

Eppure dalle stesse autorità stiamo sentendo da decenni alcune ovvietà sulla società dell’informazione, del know how, della creatività. È possibile che nessuno proietti su questo scenario il diagramma della nostra discesa verticale (testimoniata se ce ne fosse bisogno dai dati IALS e PISA)? Possibile che nessuno sia capace di percepire che il combinarsi di questi due movimenti porterà il Paese a occupare la posizione dalla quale altri stanno rapidamente uscendo — ad essere cioè il nuovo Terzo Mondo?

Comincio col distinguere due gruppi di attori pubblici: quelli che si comportano come si sono sempre comportati e quelli che segano il ramo sul quale sono seduti e al quale è appeso il loro futuro.

Nessuno si senta offeso, diceva De Gregori. Non si dovrebbe offendere né turbare alcuno se lo stesso bambino di Andersen che osservava che il re è nudo rilevasse anche, sine ira ac studio, che da 20 secoli la Chiesa ha cercato di controllare e limitare la cultura di massa. Il motivo mi pare ovvio, e non l’ho certo scoperto io: se si fosse concesso al popolo di muovere qualche passo oltre all’alfabeto, ai dettati e alle poesie a memoria, magari a qualcuno si sarebbe sviluppato un barlume di spirito critico, e magari — per esempio — qualcuno di questi qualcuno si poteva anche domandare come mai in tutte le religioni che hanno avuto origine sulle sponde semito-camitiche del Mediterraneo il dio giovane-maschio (figlio del Dio supremo, quasi sempre rappresentato come un maschio vecchio con la barba bianca) è sempre stato partorito da una vergine. Sono figli di una vergine non solo Cristo, ma Osiris (la vergine è Neith), Horus (la vergine è Isis), Tammuz (la vergine è Ishtar anche detta Astarte), e anche la divinità venerata dai superstiti pagani a Cartagine, antica colonia fenicia, ai tempi di Agostino vescovo di Ippona (ce lo racconta proprio lui nelle Confessioni). E magari a qualcuno di questi qualcuno di questi qualcuno poteva ohibò venire in mente anche un legame con il detto siciliano “le donne sono tutte bottane salvo a mi’ matr’ che è una santa” — cioè nulla di meno di un’interpretazione antropologica delle religioni, tutte pretese rivelate ma tutte invece fabbricate da caste di sacerdoti che gratificavano senza scrupoli i pregiudizi dei loro fedeli maschi al fine di consolidare il loro potere.

E non mi si sventolino — come talvolta mi è capitato — l’esistenza di scuole di élite degli scolopi e dei gesuiti. Una casta dirigente ha dovuto pure esser formata. I vantaggi, in termini di potere, dell’idea della doppia verità (una per gli intellettuali, una per il popolo bue) la nostra casta sacerdotale l’ha appresa dall’andaluso Averroé tramite Sugier de Brabant, Alberto Magno e Tommaso d’Aquino. Era una maniera per permettere a qualche politically incorrect (di là i Maimonide, gli Ibn Khaldun,di qua i Telesio, i Campanella, i Bruno, i Galilei) di fantasticare per conto loro senza disturbare il manovratore. Che se poi questi ambivano a diffondere le loro fantasticherie, allora la verità tornava rapidamente una sola, si aprivano le galere e si accendevano i roghi.

La doppia verità suggerì poi ai gesuiti, confessori di principi, una facile analogia: la doppia morale (una per i potenti, una per il popolo bue).

Chiudendo un occhio su qualche peccatuccio regale si ottenevano feudi, esenzioni fiscali, diritti di raccogliere decime, la competenza esclusiva sull’istruzione elementare e media. La Chiesa ha tempi millenari, memoria millenaria e binari immutabili, ai quali torna automaticamente dopo brevi incidenti di percorso: dopo la parentesi risorgimentale, le leggi Siccardi sulla confisca della manomorta ecclesiastica e le leggi Casati sull’istruzione pubblica e laica, dopo aver isolato in una specie di quarantena (il non expedit) le masse di contadini analfabeti che la seguono, le bastano pochi decenni per pescare l’uomo della provvidenza. Non il pio conte Gentiloni, non il sacerdote Don Sturzo, non il deputato cattolico Donati, ma il feroce anticlericale Mussolini, che in cambio della benedizione al suo regime restituisce a papa Ratti e al cardinal Gasparri il patrimonio immobiliare requisito e perfino una fettina di potere temporale. A guerra finita, papa Pacelli fa ancora meglio del suo predecessore: ottiene infatti senza dar nulla in cambio — anzi, continuando a sventolare scomuniche — l’inserimento del concordato della costituzione repubblicana (e lì incontriamo un’altra costante, stavolta del PCI: scavalcare le forze della sinistra laica per accordarsi direttamente con il papato e i suoi rappresentanti politici). Peraltro, anche la sinistra laica quando capita si inchina ai voleri del papato. Il suo esponente più aggressivo, Craxi, concede al Vaticano quello che Pacelli e Gedda non avevano ottenuto dal democristiano mitteleuropeo De Gasperi: la riedizione del concordato, che lo redima dalla tara genetica di esser stato concluso con un regime fascista.

Ruini e Bagnasco, quindi, non hanno inventato nulla di nuovo. Ancora una volta hanno adottato come uomo della (loro) provvidenza il più cinico realpolitiker sul mercato proponendo il solito scambio: indulgenza plenaria, in questo mondo e — se ancora ci credessero — nell’altro. D’altra parte, per 6 o 7 secoli hanno pubblicamente venduto indulgenze a chi poteva pagarsele. Ora la transazione è più indiretta, più riservata (in tutti i sensi del termine). E la morale resta doppia: hanno lasciato senza una sillaba di commento che Berluskoni si comportasse come uno al di sopra di ogni peccato e di ogni reato, mentre il popolo è rimasto sotto la cappa di norme “morali” che lo espropriano persino del diritto di decidere della propria vita e della proprio morte (decisione che peraltro Woytila ha rivendicato senza che nemmeno Ferrara avesse da ridire, senza che Eugenia Roccella portasse brocche d’acqua in Vaticano come davanti a casa Englaro).

Di nuovo, che nessuno si senta offeso: la destra economica è andata anche al di là della destra culturale, cercando di tenere il popolo a un livello di ignoranza ancora maggiore di quello gradito a Santa Madre Chiesa. Se il proletario imparava anche solo a leggere, magari gli potevano capitare tra le mani i testi di Huss, dei lollardi, di Melantone e della sinistra luterana, e poi — si salvi chi può — di Rousseau, Blanqui, Buonarroti, Fourier, e poi di Feuerbach, Marx, Rosa Luxenburg, di Andrea Costa, di Cafiero. La battaglia per l’istruzione pubblica e gratuita è quella, fra tutte le battaglie, che ha più costantemente visto schierate la destra da una parte e la sinistra dall’altra. In tema di organizzazione economica e di rapporti di produzione, la sinistra si è divisa fra innumerevoli soluzioni (falansteri, soviet dei lavoratori, statalizzazione, kibbuzim, partecipazione alla gestione e/o agli utili, tassazione progressiva, tassa patrimoniale, abolizione della successione), e la destra si è lasciata tentare da alcune di esse. Ma per l’istruzione pubblica e gratuita le sinistre si sono battute tutte e sempre, nelle due Americhe come in Europa e in Asia. Anche per questo hanno sostanzialmente vinto: persino in Italia la Costituzione ha vietato di sostenere scuole private con fondi pubblici. E ancora una volta, per abrogare di fatto questa norma costituzionale la Chiesa non ha usato il partito cattolico, ma ha concluso un accordo di potere con chiunque fosse disposto a procedere a negoziare.

Che meraviglia c’è quindi se questo governo — erede sia della destra populista (cioè più bonapartista che liberale) sia di quella cattolica — toglie fondi su fondi alla scuola pubblica e alla cultura e trasferisce risorse alle scuole private cattoliche?

Mettere i soldi spesi nell’istruzione e nella cultura nella colonnina dei costi anziché in quella degli investimenti, come dottamente gli economisti e affini rimproverano al governo, non è un errore di classificazione, ma il frutto di un preciso calcolo. Tremonti, quando dice che la cultura non si mangia, sa benissimo quello che dice. Per il potere della destra, ogni soldo investito in cultura è un fattore di costo, nel senso di future perdite (di potere, e quindi anche di soldi).

Fin qui tutto pacifico, tutto perfettamente razionale (non solo zweckrational ma — se i loro valori sono il (loro) denaro e il (loro) potere — anche wertrational).

3: Meno razionale, anche se comprensibile (vedi poi), il fatto che la sinistra abbia allegramente e alacremente collaborato allo sfascio della scuola, così come — con poche eccezioni— alla volgarizzazione della televisione pubblica.

Non sto alludendo alla media unica richiesta dai socialisti ai primi governi di centro-sinistra. E’ ovvio che questa riforma davvero epocale, davvero attesa da secoli, abbia provocato un abbassamento del livello dei corsi; ma era un nobile e francamente irrinunciabile tentativo di eliminare una discriminazione di classe per la quale la metà abbondante dei giovani del paese si trovava condannata alla seconda serie ancor prima di togliersi il grembiulino e mettersi le calze lunghe o i pantaloni.

Sarebbe stato necessario dar sostanza e nerbo a questo sforzo di elevazione mobilitando il corpo docente e coinvolgendolo anche con un adeguato miglioramento del loro status nella società. Invece si è seguito la strada opposta: favorire gli interessi e i comodi dei mediocri che affollavano i sindacati bianchi e rossi, eliminando ogni forma di controllo sulla loro preparazione mediante la buffonata dei corsi abilitanti al posto delle dure abilitazioni, che avevano almeno prodotto un secolo esatto di scuola di alta qualità, classista ma con pochi paragoni all’estero quanto a capacità di dare una solida preparazione e di produrre laureati capaci di pensare con la propria testa. Questa politica lassista, dalle famigerate leggi Spigaroli in poi, ha caratterizzato il successivo mezzo secolo di interventi di ogni governo sulla scuola: dall’abolizione per decreto dell’insegnamento della sintassi, all’affossamento del latino e del classico — operazione in cui si è distinto Berlinguer-le-petit (vedi poi)— all’abolizione o ridicolizzazione di ogni forma di controllo dell’apprendimento, agli incentivi agli istituti che promuovevano un tasso più alto di promossi — incentivi che hanno indotto non pochi presidi a propagandare la permissività dei loro istituti e ad emarginare i professori che non protestavano per le partite di pallone in classe durante l’orario di lezione (vedi il libro Clicca su te stesso di Birindelli nella collana dell’editore Bonanno). Ciascuno di noi potrebbe continuare a trarre esempi dallo stillicidio di “riforme” e circolari che hanno prodotto lo sfascio.

Perché ho detto che l’entusiastica cooperazione che la sinistra ufficiale ha dato allo sfascio era comprensibile?

Ahimè bisogna risalire al barbone, come veniva chiamato affettuosamente dai suoi fans quando ero giovane. È noto che per il barbone quello che conta nella società e nello Stato è la posizione rispetto ai mezzi di produzione; essa determina quale classe è portatrice di rivoluzione e di futuro: tutto il resto è sovrastruttura. Vero è che nella sua fase meno positivista intuiva il fatto che la posizione rispetto ai mezzi di produzione (la classe an sich) non bastava senza la coscienza di classe (la classe für sich): ai suoi tempi le ricerche sociali erano in fasce, e anche se Marx avesse voluto non avrebbe potuto constatare che la coscienza di classe era merce rarissima in giro per l’Europa. Ma almeno le notizie storiche sulla classe di appartenenza dei vandeani e le notizie di giornale su che tipo di volontari mobilitava il cardinale Ruffo contro i mazziniani di Pisacane le poteva leggere.

Fatto sta che quando si è cominciato a far ricerche di sociologia elettorale in quasi tutti i paesi europei (salvo l’Inghilterra) il miglior predittore del voto a sinistra è costantemente stato il livello d’istruzione, non il reddito o la posizione rispetto ai mezzi di produzione. E questo particolarmente in Italia. Non conosco dati anteguerra, ma nei 50 anni della I repubblica i lumpenproletari hanno votato per l’estrema destra, i contadini hanno sempre votato DC, la maggioranza degli operai idem (ricordiamoci che le più alte percentuali di operai erano nel bresciano-bergamasco — il cuore dell’industria pesante italiana — dove la DC sfiorava il 70%). Come ha insegnato un magistrale saggio di Sivini di 40 anni fa, si votava a sinistra solo dove le cooperative anarchiche e repubblicane avevano preceduto le leghe bianche nel mobilitare i contadini. Mobilitazione: una forma di sovrastruttura. Ohibò. Nella II Repubblica gli operai padani, finita la DC, votano ancora più numerosi per la Lega.

Ma tutti gli hegeliani, di destra e di sinistra, hanno continuato a disprezzare l’inferma scienza — come la chiamava Croce (ora la ingoiano, ma solo nell’incarnazione terra terra dei sondaggi telefonici) — e quindi non hanno mai tratto le conseguenza dai costanti risultati delle ricerche di sociologi e politologi. La conseguenza drammatica è che non hanno capito che collaborando alacremente allo sfascio della scuola segavano l’albero su cui stavano seduti. Per due motivi: solo con un minimo di addestramento intellettuale gli uomini (a) riescono a concepire interessi collettivi al di là del loro particulare [una volta era questa la caratteristica della sinistra] e (b) sviluppano capacità critiche sufficienti a non cadere preda del primo imbonitore da strapazzo. Capacità che era, e ancor più è drammaticamente urgente sviluppare, dato che erano decisamente scarse della dotazione intellettuale dell’italiano medio, visto che — caso unico in Europa — in meno di un secolo le folle hanno adorato non uno, ma due uomini della provvidenza, unti del signore. Purtroppo la sinistra marxista del dopoguerra, se ha le carte perfettamente in regola rispetto al compito di addestrare le masse a darsi fini collettivi, non le ha affatto quanto a sviluppo delle capacità critiche: E non per caso: sarebbe stato difficile a Togliatti e alla sua cerchia raccontare a una base non addormentata che gli insorti ungheresi del 56 erano socialtraditori e continuare fino al 68 a presentarle la Russia di Stalin e Brezhnyev come il paradiso dei lavoratori.

A fine anni 60 frequentavo la casa del mio futuro suocero, ex alto dirigente del PCI. Arrivavano due riviste di partito: Rinascita, riservata agli intellettuali e dedicata allo spaccamento del capello dottrinario in 4, sulle orme di Suslov (che differenza con la casuistica dei gesuiti? assolutamente nessuna) e il Calendario del popolo, dedicato alla divulgazione culturale, su un registro così alto che in questo paese, terra di azzeccagarbugli e di intellettuali di nicchia, ho trovato di meglio solo nella gloriosa collana di tascabili della BUR.

I quadri del partito si formavano su Rinascita, ovviamente, perché l’ortodossia marxiana e marxista era ancora il passepartout per le Botteghe oscure. Non a caso l’unica voce a levarsi nella direzione del PCI contro le politiche dell’ala sindacal-mediocrista fu quella di Amendola, figlio del grande liberale ucciso dai fascisti. Lui aveva gli strumenti per capire le conseguenze di lungo periodo di quanto si stava perpetrando per contentare un pugno di votanti para-clientelari. Gli altri no: non leggevano ricerche sociali, e meno che mai Weber.

Questa lacuna culturale si è perpetuata intatta nei decenni. Il più puro esponente dell’ortodossia hegelomarxiana — D’alema — da segretario del partito si guardò bene dal mobilitare le truppe nel referendum sulla terza rete di Berluskoni; e — morto Amendola — nessuna voce critica si levò nel partito; tanto meno quella di Veltroni, che così confermò la natura superficiale e marmocchia della sua vocazione di liberal a-marxista. In quella come in altre occasioni si è accusato D’alema di aver una tacita intesa con Berluskoni. Può anche darsi; ma non avrebbe preso una (non-)decisione così disastrosa se non avesse ereditato il dogma marxiano e marxista dell’irrilevanza della sovrastruttura.

Sfasciata la scuola, perso quel referendum, la frittata era fatta. La sinistra marxista si era condannata all’opposizione per un millennio, trascinando con sé anche la sinistra liberale — ahimè ben poca cosa se in Italia non è riuscita in 50 anni a liberarsi di un paranoico, narcisista e anti-comunista viscerale come Pannella. Ma se fosse mancata una ciliegina sulla torta, è arrivato Berlinguer-le-petit a proclamare la condanna del liceo classico e il trionfo degli istituti tecnici, in splendido pendant con le tre i di Berluskoni. Lo chiamo Berlinguer-le-petit in omaggio al soprannome che si dava a Napoleone III. Visto che il dalemiano-ante-litteram Guizot incoraggiava la destra a votare per il futuro Napoleone III non ancora presidente dicendo “C’est un crétin, qu’on mènera”, potrei conservare il parallelo anche con l’altro nomignolo (Berlinguer-le-crétin). Ma non posso dimenticarmi che Napoléon-le-petit ha fregato Guizot stabilendo un impero ventennale (e grazie al suo aiuto i Savoia hanno ingoiato il futuro santuario della Lega, e prossimo santuario della ndrangheta), mentre Berlinguer ha dato l’ultimo colpo alla sinistra, facendo la figura da perfetto imbecille che si meritava.

Se il disprezzo marxiano per la sovrastruttura è direttamente o indirettamente responsabile per tutto questo, c’è un’altra clamorosa fallacia della sinistra che non può essere imputata a lui, ma ai suoi volgarizzatori. Si tratta dell’ostilità per la meritocrazia, considerata di destra, mentre l’egualitarismo del 6 politico e della laurea per diritto di natura agli analfabeti e ai fannulloni sarebbe di sinistra. Marx riservava la fase “a ciascuno secondo i suoi bisogni” a un lontano futuro, dopo l’avvento della dittatura del proletariato. Ma ha dedicato buona parte del Capitale all’esaltazione della borghesia, che aveva minato alle fondamenta una società basata sull’appartenenza familiare e sui vincoli di sudditanza feudale. Il guaio è che questa rivoluzione borghese — così come la riforma protestante che ne è in larga misura l’antenata — in Italia non è mai arrivata. In tutti i settori della società, dall’industria alla politica all’università le prospettive di avanzamento di carriera per ogni singolo sono basate sulle cordate, sull’obbedienza a signori delle tessere, a baroni, ai capitani d’industria. Marx, che quanto meno aveva le idee chiare sulla successione delle fasi storiche, non avrebbe avuto dubbi che in questa fase di tenace sopravvivenza del feudalesimo la battaglia per la meritocrazia è rivoluzionaria. Ma ai suoi seguaci questo non passa neanche per la testa. Affascinati da termini come ‘postmoderno’ ‘postcapitalismo’ ‘globalizzazione’, non capiscono che i destini individuali sono quasi integralmente, e quasi per tutti, controllati da meccanismi di selezione perfettamente feudali.

Per concludere, una domanda. Segare l’albero su cui si è seduti è un’esclusiva della sinistra? Le recenti vicende del libro di Priulla ci dicono di no. Il fatto che due importanti case editrice rifiutino di pubblicare un libro che denuncia il degrado della cultura italiana, condannando in modo particolare la disabitudine dei giovani a leggere, ha francamente dell’incredibile. Si può anche capire che dei lettori esterni, chissà come scelti e reclutati, spingano il loro spirito gregario a condannare tutto quello che esce dal politically correct del momento. Ma dovrebbe essere l’editore a ignorare il loro giudizio. Ci sono stati grandi editori che hanno fatto la politica editoriale della propria casa: Laterza che pubblicava Croce in tempi di fascismo, Rizzoli, Einaudi, Sellerio, Armando. Oppure erano alti dirigenti della casa editrice: Vittorini, Pavese, Calvino, Eco. Personaggi del genere sono sempre più rari: ora padroni, amministratori delegati e dirigenti non hanno una politica editoriale e si nascondono dietro lettori anonimi. Non solo non sono in grado di capire l’urgenza di una battaglia che investe proprio il settore in cui operano e attacca mali che dovrebbero conoscere, ma sono tanto miopi da non saper fare neppure un calcolo elementare e di breve raggio.

Se, continuando così, la prossima generazione sarà completamente analfabeta, le case editrici dovranno chiudere, o pubblicare libri di figure. Ma in fatto di gestione delle immagini, ci sono sul mercato rivali in condizioni di vantaggio sin dai tempi dei fratelli Lumière, e un vorticoso sviluppo tecnologico (il più rapido negli ultimi decenni) ne aggiunge altri ad ogni passo.

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